Il Nostro Cervello Fragile

Il Nostro Cervello Fragile

È il motore della qualità della nostra vita con le sue abilità fuori dal comune ma il suo invecchiamento compromette alcune funzioni superiori come la memoria breve, la parola e il controllo motorio.


Il percorso di crescita, maturazione, invecchiamento del cervello nel corso della nostra vita è un paradosso. Alcune funzioni evolute che lo contraddistinguono e lo rendono unico nel mondo animale maturano tardi verso la fine dell’adolescenza ma con l’invecchiamento sono le prime a declinare perché sono le più vulnerabili con il passare del tempo. Un processo che può essere accelerato da patologie come l’Alzheimer o il morbo di Parkinson.  È la sorprendente conclusione di una ricerca coordinata da Felix Hoffstaedter del Research Center Jülich in Germania.

L’invecchiamento e il declino cognitivo negli esseri umani è clinicamente associato con una progressiva perdita quantitativa di materia grigia nel cervello. Hoffstaedter nel suo studio l’ha comparato con l’invecchiamento del cervello degli scimpanzè nel quale la riduzione della materia grigia avviene in forma ridotta rispetto agli umani e non dà origine a particolari patologie. Il risultato che ha sorpreso il ricercatore tedesco e i suoi collaboratori è che la perdita di materia grigia negli esseri umani si manifesta di preferenza nelle regioni cerebrali associate ad alcune funzioni superiori che caratterizzano in modo univoco le nostre capacità cognitive e il nostro stile di vita come le aree della parola, della memoria breve e del coordinamento visuospaziale dei nostri movimenti nell’ambiente. È la conferma che pur condividendo il 98% del nostro genoma con gli scimpanzè gli esseri umani hanno sviluppato un insieme di abilità e conoscenze che vanno oltre il semplice dato genetico e devono essere ricercate nella loro storia.

Gli studi sul cervello hanno dimostrato che la corteccia prefrontale negli esseri umani è sproporzionatamente più grande rispetto a quella dei nostri cugini prossimi scimpanzè perché abbiamo avuto una storia diversa dalla loro negli ultimi due milioni di anni che ha stimolato la crescita di nuove connessioni neurali. Abbiamo imparato a camminare, siamo scesi dagli alberi e le nostre mani non più impiegate per muoversi nell’ambiente sono diventate le artefici della costruzione e dell’uso di un mondo di oggetti che ha cambiato la nostra vita. In questo lungo tempo della preistoria il nostro cervello da un volume di 800 litri si è ingrandito fino ad arrivare agli attuali 1350. Non è un caso perché noi esseri umani siamo fatti anche di storia che cambia l’espressione genetica la quale a sua volta interviene a cambiare gli stili di vita e il nostro rapporto con l’ambiente in un lungo rimando incrociato fra cultura ed espressione genetica della durata di migliaia di anni.

Una crescita del nostro cervello non solo in grandezza, ma in complessità perché le nuove funzioni cerebrali che progressivamente si implementavano nel corso del tempo erano la risposta dal punto di vista cognitivo necessaria per la gestione dei nuovi stili di vita dei nostri antenati. La caccia, la raccolta di cibi vegetali, la loro lavorazione e cottura, la costruzione delle armi e degli oggetti quotidiani, la difesa contro i predatori, le grandi migrazioni che hanno colonizzato la Terra hanno richiesto nuove abilità cognitive, visuali e spaziali che hanno segnato lo sviluppo cerebrale dei nostri antenati perché dovevano essere in grado di muoversi e di orientarsi agevolmente e in modo intelligente dentro gli ambienti più diversi. Più tardi con la comparsa duecentomila anni fa di Homo sapiens è ancora tutto cambiato.

Questi nostri antenati hanno cominciato a pensare simbolicamente assegnando particolari significati a segni materiali come incisioni su pietra o su legno, la costruzione di ornamenti personali e con la realizzazione delle grandi pitture rupestri dentro le caverne. Hanno proseguito inventando una forma di protolinguaggio quando hanno iniziato ad associare particolari suoni a oggetti, persone e azioni che si sono progressivamente trasformati in linguaggio. Sono avvenuti grandi cambiamenti della struttura cerebrale umana ampiamente descritti dai ricercatori del Max Planck Institute di Lipsia i quali hanno messo in luce in un loro lavoro che nella transizione fra Neanderthal e Sapiens si è verificata una complessa riorganizzazione di un gruppo di geni responsabili dello sviluppo di alcune funzioni evolute del cervello.

In migliaia di anni si è così aggiunto un altro cervello accanto a quello preesistente Ma le nuove aree cerebrali attinenti alle funzioni più complesse del nostro comportamento non hanno ristrutturato la funzionalità di quelle più antiche che sono rimaste intatte. La sua struttura finale non è il risultato di un progetto razionale ed è imperfetta e con molti limiti. Rita Levi-Montalcini scriveva che il nostro cervello “È il risultato finale di un processo disarmonico che è fonte di molti problemi psichici e di disturbi del comportamento.” È un oggetto capace di grandi performance cognitive che hanno trasformato la nostra storia e l’hanno resa unica nel mondo animale, ma è fragile proprio nelle aree di recente acquisizione “perché oltre essere oggetto di un invecchiamento precoce come indica il risultato della nostra ricerca queste aree manifestano una accentuata tendenza alla vulnerabilità rispetto ad alcuni ricorrenti processi neurodegenerativi” ricorda Hoffstaedter.

Una ipotesi confermata da uno studio realizzato su 484 partecipanti dai dieci agli ottantacinque anni. “Abbiamo dimostrato che questa rete di regioni cerebrali connesse con alcune funzioni cognitive superiori che si sviluppano relativamente tardi durante l’adolescenza e mostrano una degenerazione accelerata in età avanzata rispetto al resto del cervello sono caratterizzate da una grande vulnerabilità ai processi di sviluppo degenerativo e di invecchiamento malsani, come la schizofrenia e l’Alzheimer. Effetti statisticamente rilevanti sia negli adolescenti che negli over settanta con una ridotta rilevanza in termini quantitativi nelle età intermedie” ricorda Adrian Groves del Brain Center della Università di Oxford uno degli autori dello studio.