Eclisse dei Batteri

Eclisse dei Batteri

È un processo in atto da anni che coinvolge il microbiota degli abitanti dei paesi sviluppati. C’è preoccupazione fra i ricercatori per gli effetti negativi che ha sul metabolismo umano.


Lo ricorda Matthew Carter del Department of Microbiology, Stanford University, California. Con un gruppo di collaboratori ha condotto uno studio sul campo che ha sequenziato il microbioma degli Hadza, una tribù dallo stile vita tradizionale delle foreste della Tanzania. I risultati che ha ottenuto indicano con chiarezza la notevole ricchezza genetica e l’insolita proliferazione di specie batteriche del microbioma degli Hadza se messi a confronto con quello di un gruppo di abitanti della California, rappresentanti in ridotto del modello di vita occidentale. I loro apparati digerenti domiciliano due insiemi di microbi con più differenze che similitudini.

Troppo diversi sono gli ambienti frequentati, gli stili di vita e i modelli alimentari che praticano. Sono alcune tra le cause che modellano e differenziano il loro microbiota in modo così sostanziale come ha documentato lo stesso Carter. Martin Blaser responsabile della Rutgers Robert Wood Johnson Medical School nel New Jersey, ha individuato altre cause a monte del fenomeno. Nel suo libro Missing Microbes parla di uso incontrollato di antibiotici in particolare durante i primi anni di vita, dell’allattamento con il latte artificiale piuttosto che al seno, dell’aumento dei parti cesarei in tutto l’occidente.

È una diversità dei microbiomi che ha effetti diretti e negativi sul metabolismo umano. “Questa scomparsa di batteri è un indizio che ci aiuta a indagare sulla crescente incidenza delle malattie tipiche del mondo occidentale: le cardiovascolari su tutte, il diabete, l’ipertensione. Con il cancro sono le prime cause di morte e di morbilità” racconta Blaser. Questa diversità coinvolge anche il sistema immunitario adattativo che si sviluppa dalla nascita. “Se questa perdita di batteri avviene già nei primi mesi di vita, allora sappiamo che va ad incidere sulla qualità dell’immunità la quale matura e si sviluppa proprio in questo periodo in stretta collaborazione con il microbiota” conclude Blaser.

Erman Pontzer del Department of Evolutionary Anthropology, Duke University, Durham, North Carolina, vanta una lunga frequentazione professionale con gli Hadza. Un suo lavoro ci offre una dettagliata fotografia di questa tribù. Con altre simili per stile di vita tradizionale, sono l’altra faccia della medaglia dello stato metabolico del microbiota come ha messo in luce lo studio di Carter. Modello alimentare, attività fisica, rapporto con l’ambiente sono le tre condizioni che li differenziano dal nostro way of life. Hanno ridotti tassi di diffusione delle tipiche malattie ‘occidentali’ che sono da mettere in relazione con il modello di alimentazione e la loro costante attività fisica necessaria per gestire la loro quotidianità. L’insalubrità dei loro ambienti di vita, del cibo e dell’acqua provocano diffuse infezioni del tratto intestinale e delle vie respiratorie e sono la principale causa di una elevata mortalità infantile.

“La limitata diffusione delle malattie occidentali tra queste tribù, le rende interessanti dal punto di vista clinico, potrebbero perfino ispirare un modello virtuoso di sanità pubblica. Ma la diversità del loro stile di vita e la qualità del loro rapporto con l’ambiente sono impossibili da trasferire nell’occidente sviluppato” conclude Pontzer “Troppo grandi sono le differenze e solo alcuni aspetti potrebbero essere condivisi come la comprensione del ruolo che svolge nel loro metabolismo la costante pratica dell’attività fisica e l’analisi nutrizionale del loro modello alimentare composto da una elevata percentuale di cibi vegetali e con la totale assenza di carboidrati raffinati”.

Si possono però percorrere strade alternative come suggerisce Jasmoah Bajaj del Department of Medicine del Central Virginia Healthcare System, Virginia. “E’ troppo importante il ruolo del microbiota nel metabolismo umano secondo gli studi clinici disponibili. Bisogna quindi mettere in campo quanti più strumenti clinici attualmente disponibili per trovare soluzioni anche se parziali al problema” commenta Bajaj.

Una delle strategie di lungo corso utilizzate è l’uso di probiotici sia con l’assunzione a livello individuale che all’interno di un percorso clinico sotto controllo medico. La sistematica somministrazione di Lactobacillus salivarius stabilizza la barriera intestinale aumentando la sua impermeabilità verso l’esterno. Studi clinici randomizzati hanno messo in luce l’effetto positivo dei probiotici su varie patologie del fegato. Sono stati riscontrati passi in avanti nella cura della sempre più diffusa patologia del fegato grasso di origine non alcoolica che è stata messa in relazione anche con un microbiota compromesso nelle sue funzionalità di base. Il passo successivo è stato il passaggio dai batteri prodotti con le tradizionali colture in vitro a quelli ingegnerizzati utilizzando le recenti tecniche di editing, uno sviluppo in direzione di una nuova generazione di ‘probiotici smart’.

Un veterano dello studio del microbiota, Eran Elinav dell’Immunology Department, Weismann Institute of Science, Rehovot, Israele ha avanzato l’ipotesi di utilizzare questo tipo di batteri per compensare l’effetto dei vuoti tipici del microbioma degli occidentali. Allo stato attuale è ancora una procedura nella fase di studio esplorativo. “E’ un approccio innovativo che ha avuto esiti positivi sugli animali, ma sugli esseri umani si è rivelato al di sotto delle nostre aspettative” commenta Elinav “Ciò nonostante con il previsto sviluppo di nuovi ceppi batterici più sensibili nel rispondere positivamente a particolari segnali ambientali, sarà possibile realizzare una prolungata colonizzazione del colon che possa ‘curare’ una alterazione del microbiota responsabile di una pericolosa patologia”. Molti e immaginabili sono i problemi di messa a punto di questa tecnologia ‘dolce’ di intervento sul microbiota, ma secondo Elinav, diventerà fattibile a livello operativo in tempi medi.

L’infezione da Clostridium difficile è la patologia che mette più duramente a nudo i pesanti limiti metabolici di un microbiota compromesso nella sua composizione batterica. “E’ il risultato di una trasmissione per via oro-fecale di spore del batterio di C. difficile che interessa il colon e può essere accompagnata da un suo anormale sviluppo quantitativo a spese degli altri batteri del microbiota, alterandone l’equilibrio. È un tipo di infezione generalmente associata ad un uso incontrollato di antibiotici” racconta Andrea Piccioni del Department of Emergency Medicine, Policlinico Universitario A. Gemelli, Roma. “E’ un esempio emblematico del valore cruciale che può assumere una corretta composizione batterica del microbiota umano nella difesa contro questa terribile patologia ed altre assimilabili e più in generale nell’equilibrio del metabolismo del corpo umano”.

Coerentemente con questa premessa, il trapianto di microbiota prelevato da feci umane, si è rivelato essere il trattamento di gran lunga più efficace per contrastare l’infezione da C. difficile, rispetto all’alternativa dell’uso di antibiotici anche di ultima generazione che producono pesanti effetti collaterali sul paziente. L’intervento consiste nel ripristinare l’equilibrio batterico del microbiota dell’individuo soggetto dell’infezione con un trapianto di feci provenienti da un donatore sano. I dati raccolti con studi clinici sistematici riportano un esito positivo del trattamento in oltre il 90% dei casi, grazie anche all’eventuale ricorso dopo pochi mesi ad un secondo intervento.

Con il vincolo di un quadro normativo che prevede rigide disposizioni cliniche e operative, l’intervento di trapianto feci ritenuto ormai affidabile, ha ricevuto l’autorizzazione ad operare da molti Enti Regolatori a livello internazionale. In Italia è stato regolamentato nel 2020 dall’Istituto Superiore di Sanità.