04 Gen Inedite Fragilità
La densità delle nostre ossa si é ridotta di molti punti percentuali rispetto a quella dei nostri antenati che vivevano nelle savane africane.
Sono uno degli effetti di lungo periodo dell’evoluzione che ha rimodellato la struttura dei nostri corpi in risposta agli stili di vita tipici del mondo contemporaneo. La sedentarietà é il primo imputato, a seguire il modello alimentare. La quantità di attività fisica quotidiana di un appartenente della tribù tradizionale degli Hadza in Tanzania é superiore del 25% rispetto a quella di un abitante di New York, mentre per un contadino boliviano il differenziale é del 15%. “Non ci sono dubbi sul rapporto di causa effetto che esiste fra la generale riduzione dell’attività fisica e la minore densità delle ossa degli abitanti dei paesi sviluppati” ricorda Habiba Chichir del National Museum of Natural History, Smithsonian Institution, Washington D.C. a conclusione di una ricerca realizzata sul tema.”Rispetto ai nostri antenati Sapiens si è verificata nei contemporanei una riduzione media del 30% della densità delle ossa in misura più accentuata negli arti inferiori che in quelli superiori, in particolare quelle lunghe” conclude Chichir.
È un dato che preoccupa poiché questa riduzione fa aumentare il fattore di rischio della osteoporosi, una patologia che di norma interessa il femore, la tibia, le costole, l’anca, l’avambraccio. È una ‘malattia silenziosa’ della nostra contemporaneità, perché non ci sono segnali visibili che preavvisino la sua manifestazione. Ai fini della prevenzione clinica viene individuata con l’uso di esami strumentali come la DXA con il doppio raggio X che è in grado di analizzare la densità delle ossa dello scheletro.
È una patologia in lenta e costante crescita nelle società occidentali, complice l’aumento delle aspettative di vita. Nel 2019 c’erano in Europa approssimativamente 32 milioni di individui a rischio osteoporosi intesa come riduzione della loro densità ossea oltre la soglia del pericolo. Di questi 6,5 milioni sono uomini e 25,5 milioni donne, con una prevalenza media tra la popolazione europea del 5,6%, mentre in Italia si colloca attorno il 6,3%.
È diffusa anche fra gli animali che vivono in stato di cattività rispetto a quelli rimasti allo stato selvaggio. “E’ un fenomeno che colpisce prevalentemente la testa dell’omero e del femore degli arti anteriori e posteriori”ricorda Chirchir “In generale i mammiferi carnivori che percorrono lunghe distanze quotidiane per difendere il loro territorio esclusivo di caccia, hanno una struttura ossea più resistente ai carichi meccanici negli arti anteriori rispetto ai posteriori, se confrontati con animali più stanziali. È una ricerca che ha coinvolto leoni di montagna, ghepardi, leopardi e giaguari allo stato selvaggio e in cattività. Gli stessi cani hanno una minore densità ossea rispetto ai lupi come conseguenza del loro lungo addomesticamento.
In ogni caso la correlazione di causa ed effetto è tra densità delle ossa e l’attività fisica. Come altri tessuti del nostro corpo, le ossa dello scheletro sono plastiche e quindi in continuo rimodellamento. Si adattano ai cambiamenti dei carichi meccanici associati con il peso del corpo, con il suo movimento nell’ambiente e con la gravità. Devono essere sensibili ai segnali provenienti dall’ambiente per essere in grado di far fronte alle nuove sfide. La risposta metabolica a questi eventi è un continuo processo di riadattamento della loro struttura meccanica e consistenza fisica attraverso l’interrelazione fra l’attività degli osteoblasti che producono nuovo tessuto osseo e quella degli osteoclasti che eliminano quello vecchio e usurato, ormai inutilizzabile. Una omeostasi ‘in progress’.
Come tutti gli equilibri metabolici, è un processo dinamico e può condurre anche alla perdita di massa ossea a seguito di particolari condizioni di immobilità fisica del corpo come in caso di malattia, di prolungata sedentarietà oppure durante i voli spaziali. Nei cosmonauti della Stazione Spaziale Internazionale la densità delle ossa rimane sostanzialmente inalterata nel torace mentre diminuisce nella colonna vertebrale, nel bacino e nei femori di circa un punto percentuale al mese. Un fenomeno reversibile poiché una costante pratica di attività fisica specializzata, con il tempo ne attenua gli effetti. Tutto ruota attorno ad un gruppo di particolari proteine che segnalano al corpo il suo stato di movimento o di riposo rispetto all’ambiente.
Per anni il gruppo di lavoro dello Scripps Research Institute di La Jolla in California diretto da Ardem Patapoutian, si é dedicato alla ricerca di questi ‘sensori biologici’. In una pubblicazione del 2010 i collaboratori di questo istituto, hanno annunciato la scoperta di un gruppo di nuove proteine sensibili al tocco, alla pressione di liquidi prodotta dal sangue o a quella dell’aria negli alveoli dei polmoni e nelle orecchie per la percezione delle onde sonore. Trasformano questi segnali provenienti dall’ambiente e/o dall’interno del corpo stesso, in flussi di cariche elettriche che vengono trasferite dentro alle cellule attraverso canali di comunicazione che si aprono nelle loro membrane e ne condizionano il funzionamento.
Per il tessuto osseo le proteine interessate sono le Piezo1 che danno il consenso all’attivazione degli osteoblasti per la produzione di nuovo tessuto. “Le nostre ricerche hanno confermato il lavoro dello Scripps Institute sul ruolo critico che svolge questa proteina nel riconoscimento dei segnali meccanici e nel mantenimento della omeostasi del tessuto osseo” ricorda Xuehua Li biologo al Center for Musculoskeletal Disease Research, University of Arkansas a Little Rock “Negli esseri umani una mutazione del gene che esprime questa proteina é associata ad una bassa densità delle ossa che incrementa il rischio di fratture ed é una delle concause accertate della displasia linfatica, una rara patologia che interessa lo sviluppo cellulare dei tessuti linfatici”.
A volte gli eccessi possono essere istruttivi. Il Department of Movement and Sports Sciences, Ghent University, Belgium con tutte le autorizzazioni sanitarie del caso ha realizzato uno studio clinico unico nel suo genere. Ha tenuto costantemente sotto osservazione i parametri metabolici sensibili di un maratoneta dell’età di 55 anni che in cento giorni dal novembre 2016 al febbraio 2017, ha corso una maratona al giorno.
Sono state raccolte decine di informazioni sulle risposte metaboliche del corpo umano in queste condizioni di stress estremo. Tra le tante sono da sottolineare quelle delle sue ossa. “La loro densità misurata in vari punti del corpo di questo straordinario maratoneta di 55 anni era paragonabile a quella media di un uomo di 30 anni. Ma l’aspetto più interessante di questo studio, depurato dagli ovvi eccessi, è che l’esercizio fisico aerobico può rallentare in modo decisivo la perdita di densità delle ossa, un fenomeno tipico dell’invecchiamento” è il commento di Pieter Van den Berghe primo firmatario di questo studio.