20 Mar L’Evoluzione al Lavoro
Le sorprendenti abilità del genoma delle piante che é in grado di rispondere alle sfide ambientali anche le più estreme.
Duecentocinquantamila è la stima del numero totale delle piante con il tradizionale metabolismo nutritivo che utilizza la fotosintesi clorofilliana e l’assunzione di nutrienti minerali attraverso l’insieme simbiotico di radici e micorrize. Ad oggi sono solo ottocentodieci quelle carnivore conosciute che per la loro alimentazione fanno affidamento sulla cattura di piccoli insetti, un cambiamento nutrizionale epocale. Sono il risultato di complesse mutazioni genetiche che hanno interessato il regno delle piante tra i 95 e i 2 milioni di anni fa per ben tredici volte, ognuna indipendentemente dalle altre.
Un numero esiguo di piante, ma di grande significato poiché il loro genoma ha dimostrato la capacità di sapere adeguare le proprie risposte ai cambiamenti ambientali, anche quelli più radicali, con soluzioni sorprendenti come quelle avvenute. La ‘svolta’ che ha portato al cambiamento nutrizionale di queste piante ha coinvolto così tanti cluster di geni che i biologi l’hanno definita ‘sindrome della pianta carnivora’.
Nonostante l’enorme spazio temporale che separa la comparsa delle diverse specie di piante carnivore, la causa che ha innescato il cambiamento è stata sempre la stessa: il bisogno di trovare una fonte alternativa di nutrienti per la propria vita, la forza che muove tutti gli esseri viventi, umani compresi. Erano piante che vivevano in ambienti poveri d’acqua e di minerali come l’azoto e il fosforo, elementi essenziali per la loro crescita. La mutazione ha consentito di sostituirli con quelli contenuti nel corpo degli insetti dopo che é stato assimilato dal loro apparato digestivo. Una Dionaea muscipola, la trappola di Venere, può vivere almeno tre settimane con i nutrienti contenuti in un insetto di medie dimensioni.
Questo percorso di mutazione genetica avvenuto in tempi così dilatati ha alcuni tratti che sorprendentemente accomunano almeno cinque specie diverse di piante carnivore. L’analisi genomica degli enzimi utilizzati per la digestione dell’insetto fino alla assimilazione dei nutrienti contenuti nel suo corpo, hanno mostrato una loro ascendenza ancestrale comune. È un classico caso di evoluzione convergente ben noto ai biologi, diffusa tra gli esseri viventi la quale suggerisce che in questo caso sono stati privilegiati solo alcuni percorsi genetici, tra i tanti possibili.
Rainer Hedrich dell’Institute for Plant Physiology and Biophysics, University Würzburg, Germany in un suo lavoro sulle basi genetiche di questo cambiamento, ha definito le piante carnivore come le più esperte cacciatrici di insetti del mondo vegetale. “Il materiale genetico indispensabile al metabolismo della pianta carnivora è presente nella maggior parte delle piante tradizionali, le non carnivore” dice Hedrich. “Quindi alla base di questa mutazione c’è semplicemente il suo riutilizzo che rende possibili lo sviluppo di un nutrito gruppo di nuove funzioni metaboliche”. Nessuna novità. È risaputo che l’evoluzione non inventa nulla, riutilizza i materiali genetici esistenti e li reindirizza per sviluppare nuove funzioni che soddisfano i particolari bisogni del momento.
Millenovecento dodici cluster di geni coinvolti nel tradizionale metabolismo delle piante sono stati silenziati. Riguardavano alcune funzionalità connesse con le radici, le foglie, la produzione di alcuni enzimi. Altri duecento settantanove hanno invece aumentato la loro espressione genetica per predisporre tutte le nuove funzioni necessarie alla predazione, la digestione, la assimilazione degli insetti e ad altre attività accessorie. Curiosamente una parte dei geni che esprimono i molti enzimi necessari per queste nuove funzioni, erano nuove versioni di geni ancestrali che in origine assolvevano la funzione di difendere la pianta dall’attacco degli insetti.
Le piante carnivore hanno dovuto approntare un insieme di tratti metabolici decisamente inusuali, del tutto assenti in quelle tradizionali. Il nuovo corredo genetico ha messo a punto una trappola per gli insetti, di forme diverse fra le varie specie, ma tutte caratterizzate dalla capacità di intercettare e catturare le loro prede, poi ha provveduto alla necessità di evitare falsi allarmi prodotti da eventi casuali come le gocce di pioggia e contemporaneamente di non ostacolare il delicato lavoro degli insetti impollinatori, attività cruciale per la loro sopravvivenza individuale.
“La meccanica della predazione delle piante carnivore è un sistema altamente efficiente e sofisticato” dice Carl Proko del Salk Institute for Biological Studies, la Jolla, California, primo firmatario di una ricerca sulla Dionaea muscipola. Gli insetti vengono attirati dalla pianta dalle esalazioni prodotte da una miscela di composti organici volatili come i terpeni e i benzenoidi e dal colore rosso vivo delle foglie che sono contrapposte fra loro. I loro lobi hanno tre peli sensibili al tocco che giocano un ruolo cruciale nella predazione. L’analisi genetica ha trovato sulla loro superficie una significativa presenza di decine di geni che esprimono due gruppi di proteine simili fra loro: le Flycatcher e le Osca. Sono localizzate nelle membrane cellulari dei peli e funzionano come dei canali meccanosensibili che si aprono quando vengono stimolati da una pressione meccanica anche la più piccola come quella prodotta da un insetto. In questo caso inviano alle foglie dei segnali che si è verificato un evento proveniente dall’ambiente.
È l’inizio di una sorprendente procedura di verifica e controllo da parte della pianta che quel segnale sia stato effettivamente prodotto da un insetto e non da un evento casuale, come la pioggia o da particelle di polvere portata dal vento. Viene memorizzato dalla pianta, ma non è sufficiente. Entro 30 secondi dal primo deve arrivare un secondo segnale di conferma che confrontato con il primo, dà il consenso finale alla chiusura della trappola che avviene in meno di cento millisecondi e contemporaneamente attiva la procedura della produzione degli enzimi per la digestione dell’insetto catturato. Le foglie rimangono chiuse fino alla conclusione del ciclo di assimilazione del corpo dell’insetto che dura in media qualche giorno.
La capacità di memorizzare eventi non è una esclusiva delle piante carnivore. La prima, che è stata oggetto di studio addirittura agli inizi dell’Ottocento, è la Mimosa pudica conosciuta dai botanici per la sua capacità di chiudere le foglie se sollecitate fisicamente. Una recente ricerca sperimentale ha sottoposto la pianta ad una serie di stimoli meccanici variamente distribuiti nel tempo e ha dimostrato una indiscussa capacità di memorizzarli. Un consistente filone di ricerca scientifica individua in questa abilità delle piante, che non è esclusiva di Mimosa, il segno della presenza di una forma di intelligenza. “La corrente narrazione scientifica associa la memoria con attività neuronali” dice Stefano Mancuso del Department of Soil and Environmental Science, University of Firenze, Sesto Fiorentino uno degli autori dello studio. “Abbiamo invece dimostrato che i processi di memorizzazione non richiedono necessariamente la presenza dei tradizionali circuiti neuronali presenti negli animali. Cervelli e neuroni sono una soluzione sicuramente sofisticata, ma non sono indispensabili per le attività connesse con l’apprendimento e la memorizzazione come accade nelle piante”.