Mismatch

Mismatch

È il conflitto fra il nostro stile di vita contemporaneo e quello dei nostri antenati che incide negativamente sul metabolismo umano.


Antropologi e biologi evolutivi ritengono sia una delle possibili cause delle malattie non trasmissibili. Sono le cardiovascolari, il cancro, il diabete mellito, le respiratorie, malattie che nei paesi sviluppati da molto, troppo tempo sono la prima causa di morte e di morbilità. Tutti gli anni provocano più decessi del Covid e lasciano in eredità una lunga scia di malati spesso con una ridotta qualità di vita.

“Sono patologie difficili da prevenire e curare perché sono il risultato di una complessa e poco conosciuta interazione fra il corredo genetico individuale e l’ambiente” commenta Amanda J. Lea del Department of Biological Sciences, Vanderbilt University, Nashville, Tennessee coautrice di una rassegna sul tema. “Le malattie cardiovascolari hanno decine di marcatori genetici specifici, ma sono solo una piccola frazione dell’insieme degli effetti ereditari. Questo ci porta alla conclusione che sono i fattori ambientali in sinergia con i dati genetici a condizionare il rischio cardiovascolare”. In altre parole, interazione gene ambiente nella complessità della vita reale.

Questioni che hanno aperto la strada all’ipotesi del mismatch evolutivo. “Ogni individuo eredita alla nascita centinaia di geni che interagiscono con il suo ambiente. La maggior parte di questi è stata selezionata migliaia di generazioni prima perché allora miglioravano la possibilità di sopravvivenza dei suoi antenati” commenta Daniel Lieberman professore di Scienze Biologiche del Dipartimento di Biologia alla Università di Harvard, Cambridge, Massachusetts “Gli stessi geni in un ambiente diverso possono essere la causa di malattie prodotte da un effetto ‘mismatch’, uno squilibrio di risposte metaboliche del nostro corpo in due diversi contesti evolutivi. Il sistema più semplice di riconoscerle è seguire le modalità con cui un particolare stimolo ambientale è cambiato nel corso del tempo, come la dieta per esempio”.

Sono note un certo numero di mutazioni genetiche che si sono verificate nella nostra breve storia di Sapiens in alcune regioni particolari del nostro genoma. Quella della persistenza dell’enzima della lattasi che si è resa necessaria a seguito della domesticazione degli animali, la mutazione del gene CPT1A per la gestione del metabolismo dei lipidi avvenuta nei popoli dell’Alaska, del Canada settentrionale, della Groenlandia, la mutazione genetica per un corpo di piccola taglia, il fenotipo del pigmeo, in alcune popolazioni africane e asiatiche e gli otto cluster di geni che consentono alla comunità di pastori Turkana dell’Africa orientale di vivere in un ambiente con elevate temperature medie e una cronica scarsità di acqua. Mutazioni che hanno richiesto migliaia di anni e hanno reso possibile la vita e il successo riproduttivo di alcune popolazioni in ambienti altrimenti in ambienti non adatti.

Ma il tempo delle mutazioni è troppo lungo rispetto ai cambiamenti che sono avvenuti nel mondo occidentale negli ultimi due secoli. Prima la rivoluzione industriale, poi una brusca accelerazione dopo la Seconda Guerra Mondiale e quella del nuovo secolo con la digitalizzazione delle società. Cambiamenti ai quali il corpo umano si è adattato con difficoltà. Da questo scostamento fra genetica e velocità delle trasformazioni ambientali si è sviluppata l’ipotesi di lavoro del mismatch.

L’ampiezza di questa divaricazione di stili di vita fra recente passato e presente è palpabile presso alcune tribù che praticano ancora oggi uno stile di vita tradizionale come gli Hadza nelle foreste della Tanzania, gli Tsimane in quelle della Bolivia, gli Shuar in Ecuador. Biologi e antropologi li studiano da anni e i risultati delle loro ricerche sul campo testimoniano di una diffusa simbiosi tra il loro stile di vita e l’ambiente che si manifesta in una ridotta incidenza tra loro delle malattie non trasferibili, in particolare delle cardiovascolari.

Oltre agli strumenti della genetica, altri risultati dalla ricerca tradizionale iniziano a chiarire particolari aspetti del fenomeno mismatch. Per queste tribù l’attività fisica è uno dei momenti che connotano le loro giornate impegnate nella caccia, nella raccolta di vegetali, nella gestione del fuoco e delle attività sociali. La scoperta una decina di anni fa da parte del gruppo di lavoro di Ardem Patapoutian dello Scripps Research di La Jolla in California delle proteine meccanosensibili, ha messo in evidenza che con la loro abilità di intercettare il movimento e trasformarlo in informazioni per le cellule del corpo, assegnano un ruolo non marginale all’attività fisica nel metabolismo animale, quello umano in questo caso.

I movimenti del sangue nell’apparato circolatorio, dell’ossigeno nei polmoni, la corretta posizione degli arti nello spazio attorno al corpo, i suoi effetti sulla struttura fisica delle ossa e delle cartilagini dello scheletro, sono alcuni dei percorsi metabolici che vedono coinvolte queste proteine meccanosensibili. Il nostro apparato digestivo conta sulle loro funzioni per gestire al meglio il transito intestinale del cibo. Alcuni di questi aspetti positivi si sono persi nel nostro stile di vita sicuramente meno ‘on the road’ di quello di uno Tsimane o di uno Shuar. Una perdita grave per il nostro metabolismo, difficile da quantificare: “Non è possibile confinare in un solo farmaco tutti i benefici dell’attività fisica perché nessun insieme di principi attivi è in grado di esprimere i suoi molti effetti positivi sulla salute del nostro corpo” commenta Daniel Lieberman.

In termini di modello di alimentazione in solo cinquanta anni il cambiamento è stato radicale. Per i paesi del mediterraneo in materia disponiamo di un documento unico nel suo genere che lo testimonia, un lavoro di archeologia gastronomica. È il libro scritto da Ancel Keys assieme alla moglie nel 1975 How to Eat Well and Stay Well, the Mediterranean Way che è un dettagliato repertorio di 278 ricette tipiche dell’Italia, Spagna, Francia e Grecia a cui si ispiravano le popolazioni locali per la loro alimentazione quotidiana negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Non è uno studio storico, ma riassume ‘quel’ modello di alimentazione, distante dalle nostre attuali vite molto più dei decenni che sono intercorsi da allora. Misurato con le attuali diete racconta attraverso i dati raccolti della divaricazione nutritiva con la quale si confrontano i nostri corpi con esiti di solito poco felici.

Uno studio clinico realizzato da Eicke Latz dell’Institute of Innate Immunity, University of Bonn, Germany ci racconta di uno dei paradossi dei modelli alimentari contemporanei. “Il costante consumo di queste diete associate con eccessi di calorie assunte e uno stile di vita sedentario producono uno stato di infiammazione metabolica cronica, un fattore che contribuisce allo sviluppo delle malattie non infettive” racconta Latz. È una infiammazione sterile non provocata da batteri, funghi o virus. Il sistema immunitario in questo caso si mette in stato di allarme perché il nostro modello alimentare viene percepito come un pericolo per il corpo. Dal punto di vista clinico il fenomeno viene ora considerato come uno dei co-fattori del rischio cardiovascolare.

“Le questioni sul tavolo sono molte. Lo studio di queste tribù dallo stile di vita tradizionale ci consente di misurare l’ampiezza dei cambiamenti avvenuti e ci offre la possibilità di individuare nel loro genoma tracce di alcuni marcatori genetici che possono avere subito delle derive nelle popolazioni attuali prodotte dalla pesante pressione selettiva indotta dall’ambiente negli ultimi secoli” commenta Amanda Lea “In altre parole, ci aspettiamo di trovare i ‘segni’ genetici di questa interazione per immaginare dei ‘percorsi’ possibili per la prevenzione di queste malattie”.