Ossigeno

Ossigeno

Da cinquant’anni il suo contenuto negli oceani é in declino per effetto dell’aumento delle temperature globali e della crescente quantità di nutrienti che vengono immessi nelle aree costiere del pianeta.


E’ una perdita che si colloca fra i più importanti cambiamenti avvenuti nell’ecosistema oceanico negli ultimi decenni. L’ossigeno é fondamentale per la vita. E’ un fenomeno che ha un impatto negativo sulla fauna marina, compromette la biodiversità dell’ambiente e l’integrità del ciclo dei nutrienti. “C’é molta preoccupazione fra i biologi marini perché siamo in presenza del più grande ecosistema vivente del pianeta che ha riflessi diretti sul clima globale e sulla vita di gran parte delle popolazioni che vivono sulle sue coste” dice Lisa A.Levin del Center for Marine Biodiversity, Scripps Institution of Oceanography, University San Diego, California. “Le previsioni per i prossimi decenni sono tutt’altro che rassicuranti e l’imprevista ampiezza dell’impatto biotico della mancanza di ossigeno su questo ecosistema, mette di fronte l’intera comunità scientifica al compito di aumentare il suo livello di attenzione verso questo fenomeno dai risvolti planetari”.

Le perdite globali di ossigeno nelle zone oceaniche sono state stimate dell’ordine del 2% negli ultimi cinquant’anni, un valore medio fra tante località. Le zone oceaniche con un contenuto di ossigeno al di sotto di questo valore, sono aumentate in questi anni di una superficie paragonabile a quella dell’Unione Europea. Sono localizzate nel Pacifico settentrionale, negli oceani meridionali e parte in quelli tropicali. Le acque oceaniche lungo alcune coste del pianeta hanno visto un costante incremento dei fenomeni di ipossia. Si tratta dei territori più antropizzati del pianeta: quelli degli Stati Uniti orientali, del Mare del Nord in Europa, della Cina, di alcuni territori dell’Australia, del Brasile e dell’Argentina. A presto altri se ne aggiungeranno in Africa e nel Sud Est asiatico, in particolare in Malesia.

Il riscaldamento delle acque oceaniche è il primo fattore che influenza la solubilità dell’ossigeno presente negli strati superficiali grazie all’interscambio con l’atmosfera terrestre e a quello proveniente dal fitoplancton con la fotosintesi clorofilliana. Le acque più calde sono meno dense e tendono a stazionare negli strati più superficiali dell’oceano, con una riduzione della quantità di ossigeno che raggiunge quelle più profonde con la potenziale compromissione di alcuni cicli di nutrienti. Un fenomeno che progressivamente potrebbe coinvolgere la circolazione termoalina che é alimentata dalle differenze di densità e di salinità esistenti fra le acque dei diversi oceani del pianeta. L’eutrofizzazione delle acque di un numero sempre crescente di siti costieri fortemente antropizzati gioca la sua parte in questi processi di ipossia con fenomeni che possono estendere i loro effetti fino ad oltre i trenta chilometri dalla linea di costa. Sono fenomeni prodotti dagli scarti di azoto e di potassio dell’agricoltura e da biomasse di origine umana. Entrambi stimolano la crescita di alghe con un incremento a volte esponenziale del loro volume. La demolizione di questa sostanza organica di solito localizzata in strati oceanici poco profondi é realizzata da microbi aerobici specializzati che consumano ossigeno sottratto alle acque circostanti.

Questi cambiamenti degli ambienti costieri hanno messo in allarme l’industria dei molluschi che annualmente conta su 6, 6 milioni di tonnellate di pescato. La loro cattura avviene prevalentemente lungo gli estuari e le coste. Un collasso del 98% del pescato di capesante é avvenuto tra il 2019 e il 2021 nella regione di Cape Cod nel nord est degli Stati Uniti, una zona di mare dove tra il 2003 e il 2020 é stato misurato un aumento di temperatura medio di 3°C delle acque. Le capesante sono considerate le più sensibili fra i molluschi marini all’aumento delle temperature delle acque, un  campanello d’allarme vivente come un tempo erano i canarini per le miniere. Una situazione preoccupante anche per l’industria dell’acquacoltura dei molluschi che conta su una produzione globale di 17 milioni di tonnellate.

Tutti gli organismi viventi aerobi obbligati mostrano dei limiti rispetto alla diminuzione dell’ossigeno disponibile. Può ridurre la loro sopravvivenza oppure la loro crescita. Nel mare dei Sargassi un aumento di 2° C della temperatura dell’acqua fa aumentare il loro fabbisogno di ossigeno del 29% espandendo le zone oceaniche inadatte alla vita. Viene pesantemente compromessa anche la funzione riproduttiva perché si riduce l’energia disponibile per la gametogenesi e la produzione di ormoni a supporto con una diminuzione anche importante del totale delle nuove nascite in alcune popolazioni di pesci. Sia in pieno oceano che nelle vicinanze delle coste la distribuzione orizzontale e verticale degli organismi segue i gradienti di ossigeno e i loro comportamenti ne sono vincolati.

“La carenza di ossigeno di solito é legata ad altri stress tipici degli oceani prodotti dal riscaldamento globale” ricorda Denise Breitburg dello Smithsonian Environmental Research Center, Edgewater, Maryland. “E’ in genere associata all’acidificazione e all’aumento di temperatura delle loro acque. I loro effetti combinati modellano in profondità questi ecosistemi, ma l’ipossia é il fattore che produce sul biota oceanico gli effetti quantitativamente più rilevanti in termini di sopravvivenza, capacità riproduttiva, sviluppo, abbondanza degli organismi marini”. Le ondate di calore purtroppo hanno anche un impatto negativo sulla composizione qualitativa del plancton che é alla base della catena alimentare di mari e oceani. Sono molto preoccupati i biologi marini  per questo fenomeno poiché tra il 2013 e il 2016 ha provocato una sequenza di effetti negativi mai sperimentata prima tra il golfo dell’Alaska e lungo le coste ovest del nord degli Stati Uniti. Una mortalità di circa un milione di uccelli marini, un netto incremento di quella delle balene, del salmone, del merluzzo dell’Alaska e di quello grigio.

La crescita media delle temperature produce un aumento della domanda di ossigeno per il metabolismo aerobico, in mancanza del quale si sta verificando un consistente flusso di migrazioni di organismi marini verso i poli alla ricerca di acque più fresche che compensino la mancanza di questo elemento. Si va da spostamenti da poche decine fino a centinaia di chilometri per ogni decennio. “Allo stesso tempo la riduzione fisiologica dell’ossigeno in acque più calde del passato, limita le dimensioni massime di molte specie di pesci, incluse di quelle particolarmente importanti per l’equilibrio alimentare degli oceani come quelle delle sardine che hanno un impatto a cascata su tutta la filiera e arrivano a coinvolgere balene e delfini.” conclude Breitburg. In alcune zone dell’Oceano Atlantico la riduzione dell’ossigeno può condurre ad un aumento della vulnerabilità di molte specie marine alla pesca intensiva di alto mare.

Un fenomeno che é stato indagato utilizzando gli squali che sono al top della catena alimentare oceanica e contemporaneamente grandi consumatori di ossigeno vista la loro stazza media. David W. Sims del Marine Biological Association of the United Kingdom a Plymouth in Inghilterra, studia da anni il comportamento di questi animali con l’obbiettivo dichiarato di ridurre il loro declino numerico che a quanto pare si é dimostrato finora inarrestabile. Ogni anno ne vengono catturati centinaia di migliaia da flotte di pescherecci di alto mare al di fuori delle giurisdizioni nazionali. Una sua recente ricerca ha individuato una connessione fra zone oceaniche a diverso contenuto di ossigeno e quantità di squali catturati. “Abbiamo verificato che c’é una generale compressione verso l’alto delle zone oceaniche abitabili da parte degli squali e di molte altre specie di pesci che tendono evitare le zone a basso contenuto di ossigeno” commenta Sims. “Queste particolari aree diventano purtroppo delle trappole che aumentano la loro vulnerabilità alla cattura da parte delle navi attrezzate per la pesca in alto mare. La riduzione delle quantità di squali catturati deve far parte dei nostri programmi di lungo periodo, di riduzione dei fenomeni di progressiva ipossia degli oceani”.

“L’eutrofizzazione delle acque costiere con i noti effetti sulla fauna marina, ha conseguenze a volte pesanti sulla economia dei territori dell’entroterra interessati. Diminuisce la produttività della pesca e dell’acquacoltura. Si riducono le disponibilità di pesci e crostacei che forniscono proteine e nutrienti per il consumo umano” commenta Lothar Stramma dell’Helmholtz Centre for Ocean Research, Kiel, Germany. “Le comunità locali devono affrontare una situazione complessa che richiede spesso interventi estesi e costosi nei territori a monte delle coste. Situazioni che possono assumere una particolare gravità in alcuni paesi in via di sviluppo dove spesso l’attività di pesca é l’unica risorsa alimentare a disposizione di quelle comunità.”